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"Un bel libro, Marcus, non si valuta solo per le sue ultime parole, bensì sull'effetto cumulativo di tutte le parole che le hanno precedute. All'incirca mezzo secondo dopo aver finito il tuo libro, dopo averne letto l'ultima parola, il lettore deve sentirsi pervaso da un'emozione potente; per un istante, deve pensare soltanto a tutte le cose che ha appena letto, riguardare la copertina e sorridere con una punta di tristezza, perché sente che quei personaggi gli mancheranno. Un bel libro, Marcus, è un libro che dispiace aver finito". [Joël Dicker in "La verità sul caso Harry Quebert"]

martedì 4 novembre 2025

Niente è più virtuale di un libro, ma continuiamo a fingere che sia vita


Niente è più virtuale di un libro, ma continuiamo a fingere che sia vita
I romanzi ci insegnano a vivere di evanescenza, a preferire la parola al fatto, la comodità alla ferita. Leggere è un lusso innocuo, scrivere un vizio senza rimedio

[fonte: Linkiesta]

La vita è così autobiografica, scrivi un po' di vita di chiunque, anche inventata, e quel po' di vita è la tua, la tua vita di chiunque, e per niente inventata.
Ma scrivere comincia a essere così inutile. Pare solo a me che sia così? C’è chi piagnucola che la realtà stia diradando e che invece di perdersi nelle nebbie delle navigazioni telefoniche meglio sarebbe attraccare presso un libro e leggerlo (solo a me sembrano ormai stracci d'officina letteraria, le metafore, impregnate di robe appiccicose, unte, untuose?).
Solo a me pare che mondo più virtuale del mondo che è nei libri non ce n'è e non ce n'è stato nel mondo e nella storia? Che, anzi, i libri ci preparavano a questo: all'evanescenza di ogni cosa esistente. Mano mano, pagina dopo pagina. Già non ci si umetta più il dito, o sbaglio?
Quello che accade nel libro accade solo nel libro e in nessuna altro posto al mondo. Anche le cronache, le biografie, la storia stessa, tutto, tutto accade a parole e non a fatti, e le parole, si sa, sono approssimazioni graduali alla menzogna. Oppure - dimmelo tu che leggi - è mai esplosa una battaglia in carne e ossa di soldati e bestie e popoli coinvolti, è mai esplosa davanti e intorno a te una battaglia nel mentre la leggevi, col fumo acre eccetera e i rombi dei cannoni e fango e sangue e urla e tutto il resto catastrofico?
Non è così ingenua la domanda: conosce la risposta. Nulla si avvera per non disturbare la tua permanenza nello stato di lettura. I gialli, eh? Per fare un esempio, i gialli. Che benessere sapere che avvengono delitti e che tu nel tepore sotto ombrellone d'estate e sotto le coperte d'inverno puoi godere d'ogni efferatezza. Ah, ecco: la comodità. Leggere è una comodità, la solita comodità di vedere nascere e morire altrove, soffrire e spasimare in altri petti, trionfare e fallire in altre vite, odiare, patire, vendicarsi, goderne. Sì, anche l'amore, come no, ti pareva mi fossi dimenticato il moccioso, l'insopportabile amore altrui che, però, nei libri è di nessuno, è amore a parole, benissimo. Anche, come no, l'amore, quello fatto e da fare, inseguito adottando quell'ottimo espediente (s'era adolescenti) di saltare le pagine come i cagnetti le siepi per incocciare in qualche aromatica parola tipo coscia o pube o seno, e divaricare le pagine come due ante di quell'altra parola che imparammo, boudoir (quel luogo denso e popolato soprattutto in solitudine), al tempo delle prime lezioni di filosofia non rivolte a noi ma alle fanciulle (educare i maschi è tempo perso, avranno sempre tutt'altro per la testa, anche il sesso sarà sempre tutt'altro, mai quello che è; a proposito, cos'è?)
Mi pare che mi stia allontanando dal tema. Sto svolgendo un tema? Sono di nuovo in classe? È brutto segno, è un brutto sogno, questo?
Davvero, niente è più virtuale di un libro (l'ho già detto?), di quello che c'è dentro, intendo (il fuori è carta da macero). E scrivere è così inutile (lo ripeto), Non paga più come una volta, scrivere non serve più a niente, non serve, non ti offre più un bel servizio, di posate per esempio e bicchieri e piatti in tavola, primo secondo vino contorni dolci, la frutta del tuo lavoro.
Non è più il tempo delle grandi riviste che pagavano bene: Scribner's Magazine, Harper's, Century, The Atlantic, The Argosy, The Forum, The Saturday Evening Post, Esquire, Confidenze, Intimità, Grand Hotel, bei nomi, davvero grandi riviste. Me le sono passate tutte, ai bei tempi.
E i nomi dei personaggi dei romanzi? Quando hanno cominciato a diventare inattendibili, anzi insopportabili? Vediamo. Non lo so. Da Holly Golightly, l'ultimo nome, poi non più, non oltre, lo dico senza pretendere di essere credibile (con Humbert Humbert, poco prima, già cominciavamo a buttarla sul ridere).
Scrivere è un inganno, un'insidia tesa ai danni di chi scrive, e non c'è chi non scriva, quindi non c'è chi non cada in questa trappoletta, un buco coperto di fogli con dentro gli stili e i pennini appuntiti. L'inflizione è questa: scrivi, così non ti puoi permettere di esprimerti su chi scrive senza rischiare ritorsioni. Così non c'è chi la dice tutta. Sì, frecciatine, insinuazioni, malizie, anche stroncature, però sospette, perché non si stroncano che le proprie ambizioni fallite nell'opera altrui. Insomma, il leggere e lo scrivere costituiscono ormai un patrimonio di piccola miseria, ma innocua in tutti i sensi e in ogni direzione. Che dire? Niente.
C'è chi finge meraviglia per ogni cosa in una prosa sempre abbagliata ma creduta abbagliante; c'è chi scrive in maniera sacra risparmiando sugli articoli forse perché teme che limitino l'infinità di ogni parola; c'è chi si sistema nel romanzo come in un appartamento dai muri di carta perché è importante che si senta tutto; c'è chi si minimizza accovacciandosi sulla pagina; chi la indossa, la pagina, le maniche di parecchie misure più lunghe delle sue braccia, i bordi imbronciati, remissive finzioni; chi si posa su un rigo come sul trespolo, le ginocchia sotto il mento; chi sui righi stende slip e calze e pedalini che sarebbero però le sue varie sensibilità molto esposte, anche fragilità merlettate; e famiglie, famiglie, famiglie, quei ricettacoli d'occhi e occhietti vocalici e occhiacci e occhiolini e occhi dolci e occhi neri e occhi secchi. Che persone ridicole. Non lo dico io, lo dice chi fa loro le foto significative e segnaletiche per la promozione. Io non so nulla, mi limito al non sapere nulla, mi limito e basta.
E nemmeno di questo volevo scrivere (non scrivo mai di quello che vorrei, adesso che ci penso). Volevo scrivere di una angoscia. Facciamo così: questa tirata la mando a puntate. Alla prossima, allora.

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